venerdì 29 agosto 2008

GODZILLA E LE TRE BAMBINE COI BAFFI

“Pioveva a dirotto. Una pioggia interminabile, rumorosa, fumante, vischiosa come sudore e fetida come i resti di un piede smembrato e in putrefazione.
Una folla di gente sorridente passeggiava per le strade, coperta di stracci e in cerca di altri stracci per le botteghe del Corso e di tanto in tanto il loro sguardo si levava al cielo sfidando il nubifragio che aveva sbiadito il colore dei loro occhi, ormai bianchi come i loro denti e i loro capelli. Ero giovanissima, appena trent’anni, non avevo mai visto un cadavere, quando scorsi li tra i ciottoli la mia bambina, la mia bella bambina di cui andavo tanto fiera. Fu terribile. Il viso era coperto di chiazze rosse, gli occhi anneriti, i capelli incrostati di fango e sangue, il naso spostato lateralmente e schiacciato contro la guancia, la bocca aperta e i lineamenti rilassati e privi di angoscia. Un espressione di meraviglia rivestiva il suo volto..
Venni a sapere poi che furono le ruote di un carro bestiame a schiacciargli il torace e a fargli scoppiare il cuore, a distruggere la casa della sua anima. Squarciai l’aria con un grido straziato da animale ferito, seguito da un altro e altri ancora… infine svenni.
Sfiancata dal dolore ritornai in me, impietrita, inespressiva, ammutolita. Mi piegai verso di lei e la carezzai, ma la cosa mi fece senso a tal punto che decisi di abbandonarla li e andarmene.

La folla di gente continuava a passeggiare con i loro sorrisi a triangolo rovesciato, sempre più grondanti di pioggia melmosa. Mi stupì di quanto fosse stato semplice distanziare il dolore dal mio cuore. Due giorni dopo conobbi Ivanka, una donna morbida e odorosa. Portava in testa un cesto ricolmo di stracci pulciosi, i pidocchi sembravano zampettare dal cesto alle sue zinne per poi ripetere diligentemente lo stesso percorso al contrario. Aveva un sorriso smagliante e due occhi bianchi come la polpa di un granchio… in poche parole “Irresistibile”! feci per andarle incontro, tanta era la mia voglia di conoscerla, quando lei, inciampando nel suo camicione, mi rovescio addosso il contenuto del cesto. Per un minuto rimasi li a terra ricoperto di vesti che emanavano un odore nauseabondo, poi, nel tentativo di rialzarmi, appoggiai una mano su un qualcosa di unto e grassoccio; era la sua coscia sudata che fuoriusciva dalle vesti strappate. Ivanka scoppiò in una sonora risata da ratto nel constatare il mio imbarazzo, mi mise così un piede sulla spalla spingendomi con tutte le sue forze quasi scaraventandomi sotto un carro che in quell’istante stava passando per il viale. Raccolse i suoi cenci puzzolenti e mi cominciò a fissare dritta negli occhi, mentre con l’alluce del piede scriveva il suo nome sulla nuda terra. D’un tratto emise un suono assordante, non feci in tempo a proteggermi le orecchie che lei era già sparita portandosi via insieme a quel tanfo anche parte del mio cuore. La rincontrai due mesi dopo e appena mi vide fece per zomparmi al collo e strangolarmi con un panno arrotolato. La bloccai d’istinto recidendole la carotide con uno stiletto e morì li sul colpo senza profferir suono. Impiegai ore per ripulirmi da quel sangue di giovenca e più volte durante le ore che seguirono mi sorpresi a ridere da sola come un’invasata. Camminai per nottate intere in viali con fogne che vomitavano a tempo pieno sterco, urina e letame, dalle finestre veniva una puzza di cavoli lessi andati a male e di carne putrefatta e dalle bocche della gente odore di caglio acido e grasso di foca. Vidi Tubinga seduta su una pietra proprio davanti al cimitero delle addolorate, era quasi calva e si circondava di cataste di cadaveri lessati dalla calura. Con lo sguardo sembrava seguire un filo immaginario. Notai che era incinta, tondeggiante, morbida e pelosa e tra le mani stringeva quella che poteva sembrare una lunga lingua rossa e sanguinolenta strappata dalla bocca di chissà quale povera bestia. Mi disse che le era indispensabile per uccidere le mosche per cibarsi, anche se con il passare dei minuti mi confessò che in mancanza di meglio usava quella lingua per strangolare i giovanissimi figli di nessuno che, senzatetto, potevano solo sperare nella misericordia delle stelle. Non le diedi neanche modo di finire la frase che già le avevo mozzato di netto la testa con una clavicola scarnificata..”

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